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leggere Google a Teheran. Sta cambiando la piazza: dalla tivù a internet

In greco antico il termine che significa “parlare” è agoreuo, che letteralmente indica “fare, vivere, essere piazza”. In grecia nasce la politica, proprio perché la piazza è il luogo decisivo della polis. Lì, come ancora oggi nei villaggi del mediterraneo, durante il giorno stanno i vecchi, depositari della esperienza. Il passo della loro istituzionalizzazione in Gerousia, l’equivalente del latino Senatus, è breve e fisiologico. Nel teatro poi la piazza e la politica troveranno il loro spazio critico, di mediazione e confronto tra l’opinione (la doxa) della polis e la verità (la aletheia) della acropolis, sede degli dei e del loro sacerdozio. Ma, prima di farsi tragedia o commedia nell’azione teatrale, la parola deve tutta giocarsi proprio lì nella piazza, soprattutto nei momenti delle decisioni forte e delle invasioni, quando in piazza arriva anche il resto del popolo, soprattutto i giovani. E proprio i greci scoprono quanto sia importante conoscere le logiche della piazza, i suoi tempi, le sue inerzie e le sue frenesie. La politica è in grande, basilare parte l’arte e la tecnica della piazza.

La piazza è il luogo della convergenza delle strade, il luogo forte dell’incontro tra le generazioni, il luogo delle partenze e dei ritorni. Per questo è il luogo principe della parola: perché è il luogo dell’appartenenza e della identificazione del Sé sociale, verso il quale convergono e trovano senso le appartenenze e le identificazioni individuali. Per questo la piazza e il luogo del potere essere, del potere esistere, del potere parlare, del potere confrontarsi avvolti dalla comune appartenenza alla parola e all’abitare.

La radice più forte della attuale crisi sociale sta nella caduta di tutte le “piazze”, che hanno nei decenni e nei secoli precedenti identificato i popoli e gli individui. Hanno perso sempre più valore i luoghi forti della identità: la stalla contadina, il cortile, l’osteria (chi non ricorda il ruolo dell’osteria nel Ferroviere di Pietro Germi?), il bar di Gaber o di Paoli, l’oratorio. Il mezzo televisivo (si badi bene: il mezzo, non i suoi contenuti) ha poco per volta desertificato tutte queste piazze, svuoltandole e rendendole mute e senza senso. Di questo ho parlato nel mio libro Noi e la tivù. Come leggere un linguaggio, pubblicato nel 1995, ma fatto da articoli della fine degli anni ’70. Non vorrei apparire immodesto, ma è un libro profetico: già più di trent’anni fa dicevo cose che molti sembrano intravedere soltanto oggi. Dicevo per esempio del gravissimo rischio della manipolazione politica elettorale insita nel mezzo televisivo (ripeto: nel mezzo più e prima di ogni contenuto). Ma soprattutto denunciavo l’azione deleteria della tivù in ordine agli spazi e ai tempi sociali, lo scippo relazionale che il mezzo televisivo fa della possibilità di comunicazione e identificazione, il condizionamento delle stesse strutture percettive e logiche. In particolare denunciavo la progressiva caduta di ogni sintassi logica e morale. Poi additavo l’attentato che il mezzo televisivo (ribadisco: il mezzo, non i contenuti) recava alla famiglia: rompendo la geometria relazionale della tavola, del letto, della cucina; rendendo gli uni estranei agli altri, ciascuno assorbito nel proprio unidirezionale ruolo di suddito del mezzo televisivo.

Oggi, io penso, uno dei grandi motivi di speranza è proprio internet. Con tutti i limiti che può avere, con tutta la sua ambivalenza di reale-virtuale, con tutto il rischio di potere essere una trincea psicotica dietro cui nascondersi e difendersi, tuttavia – a modo suo – oggi internet può essere una “piazza” o ‘inizio di una “piazza”. A differenza della televisione che permetteva – quale unica azione o interazione – il telecomando o l’avvio del televideo, internet permette si “connettersi”, “entrare”, “navigare”, “chattare” o “videochattare” per scritto o per parola, “postare” in blog o siti, spedire mail, telefonare gratis, scambiare e (formidabile!) produrre video o canzoni, stampare libri, comprare oggetti, organizzare viaggi e – importantissimo – leggere giornali stranieri, conoscere logiche e mondi diversi. Lo permette con confiini allargati all’inverosimile. Se uno sa l’inglese o altre lingue, poi i confini quasi spariscono.

Quando ritrova la piazza, l’uomo ha l’occasione di ritrovare la politica, quella vera, quella che può diventare il laboratorio del progetto, l’evento della decisione, la voglia della legge e del diritto, il motivo dell’appartenenza e della identificazione, l’inizio della speranza.

Per questo credo in internet, per questo credo in questo blog, per questo sono felice nello scrivere questi articoli e nel ricevere i vostri commenti e le vostre lettere. Mai ho potuto scrivere e pensare tanto liberamente come adesso che scrivo in questo blog e che penso per questo blog. Mai mi sono sentito tanto vero nel dire, libero nel comunicare, uomo in mezzo agli uomini, creatura felice di parlare.

Per questo sono strafelice nel sapere che Obama è stato eletto in gran parte grazie a internet e che in Iran internet per molti rappresenta un po’ quello che per molti italiani durante la guerra è stata Radio Londra.

Sapere che il governo iraniano di Ahmadinejad vieta l’accesso a Google dice quanto internet sia importante, quanto i motori di ricerca siano o possano essere anche motori di speranza e di azione politica.