E dove sta mai il problema?
Dice Gesù: “dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Matteo, 18, 20). Quando Gesù è tra noi, lì c’è chiesa.
Quando Rosi e io ci chiamiamo nello stupore (e “stupore” è uno dei suoi nomi), lui è con noi, perché anche lui vuole stupirsi di noi con noi.
Quando chiamo i miei figli nella festa (e “festa” è uno dei suoi nomi), lui è con noi, perché anche lui vuole essere festa con noi.
Quando chiamo i miei amici nella gioia di un buon bicchiere di vino (e “buon bicchiere di vino” è uno dei suoi nomi), lui è con noi, perché anche lui vuole stare allegro con noi.
Quando chiamo i miei com-pagni nel nome di un pezzo di pane, lo spezzo e lo mangio con loro (e “pane spezzato” è uno dei suoi nomi), lui è con noi, perché anche lui vuole mangiare il nostro pane con noi.
Quando chiamo qualcuno con parola libera e spregiudicata (e “parola libera e spregiudicata” è uno dei suoi nomi), lui è con noi, perché anche a lui piace parlare libero e spregiudicato.
Quando la sofferenza o l’offesa date o subite sono per-dono di uno nell’altro (e “per-dono” è uno dei suoi nomi), lui è con noi, perché per lui, in lui e attraverso di lui ogni sofferenza subita e ogni offesa accolta sanno aprirsi alla vita e sanno scoprirsi come dono prezioso.
Quando parlo con chi è diverso da me balbettando le sue parole e quando uno diverso da me balbetta le mie parole (e “diversità” e “parola balbettata” sono due dei suoi nomi), lui è con noi, perché anche lui vuole essere tutte le diversità e tutti i balbettii del mondo.
Quando tu e io parliamo di cieli nuovi e terre nuove (e “cieli nuove e terre nuove” è uno dei suoi nomi), lui è con noi, perché anche lui vuole infiniti cieli e infinite terre, sempre più nuovi e sempre più belli.
Quando tu e io ci aspettiamo e chiamiamo al di là e al di qua di ogni muro e confine (e “attesa” e “al di qua” e “al di là” sono tre dei suoi nomi), lui è con noi, perché anche lui vuole aspettare con noi al di là e al di qua di ogni muro e confine.
Quando tu e io, magari litigando tra noi, chiediamo entrambi giustizia (e “giustizia” è uno dei suoi nomi), lui è con noi, perché anche a lui piace battersi per la giustizia e perché lui è la giustizia.
Quando tu e io, magari discutendo tra noi, parliamo per cercare insieme la verità (e “verità cercata” è uno dei suoi nomi), lui è con noi, perché anche a lui piace la verità, così tanto che lui è davvero la verità.
Quando siamo in due e ci piace chiamare insieme a noi anche un altro (e “trinità e “insieme” sono due dei suoi nomi), lui è con noi, perché a lui piace essere insieme a due o più di due.
Quando nelle notti cerchiamo un sentiero e incontrandoci ci aiutiamo a trovare la via anche più difficile (e “sentiero cercato” e “via difficile” sono due dei suoi nomi), lui è con noi, perché lui è il sentiero cercato e la via difficile, così tanto che sempre sostiene ogni nostro passo.
Quando tu e io parliamo non per quel che abbiamo, ma per quel che siamo, anche quando a parlare siamo noi due povericristi (e “povero cristo” è uno dei suoi nomi), lui è con noi, perché non c’è nessuno più povero cristo di lui, così tanto che senza di lui non ci sarebbe gusto a essere un povero cristo.
Quando tu e io ci incantiamo parlando della bellezza, ci estasiamo nella danza, siamo una voce sola nel canto (e “bellezza” e “danza” e “canto” sono tre dei suoi nomi), lui è con noi, perché a lui piace meravigliarsi con noi e danzare con noi i nostri balli e cantare insieme a noi le nostre canzoni.
Quando, pure volendo parlare, taciamo perché siamo semplici o troppo deboli o troppo imbranati (e “parola nonostante” e “semplicità” sono due dei suoi nomi), lui è con noi, perché lui ama parlare nonostante e comunque, anche nei silenzi assordanti e imbranati e fragili.
Quando tu e io alziamo la testa e guardiamo di giorno i cieli e di notte le stelle e il buio (e “testa alzata” e “speranza disperata” sono due dei suoi nomi), lui è con noi, perché vuole con noi respirare i nostri de-sideri e tutte le nostre speranze.
Quando vogliamo così tanto vivere da non temere la morte (e “vita” e “risurrezione” sono due dei suoi nomi), lui è con noi, perché a lui è piaciuto così tanto vivere con noi e come noi, che, pure temendola fino all’urlo, ha vissuto anche la morte, al punto che l’ha infradiciata di vita e risurrezione.
Quando invece vogliamo essere soli, non vogliamo ascoltare nessuno, non amiamo neppure noi stessi, usiamo l’amicizia, tradiamo l’amore, taciamo la verità, non gustiamo la festa, non ci stupiamo d’amore, non guardiamo mai in alto, temiamo chi è diverso, inganniamo la bellezza, non amiamo neanche noi stessi, non amiamo tutto l’umano che siamo e incontriamo, lui piange, perché ama così tanto la libertà di chi non vuole stare con lui, che se ne deve andare, rispettandoci fino in fondo.
Ma, prima ci manda sempre un bacio d’arrivederci, anche quando noi non ce ne accorgiamo. E, discreto, ci segue, aspettando che noi, almeno in due, lo chiamiamo di nuovo a parlare e a cantare con noi. Noi non crediamo sempre in lui, ma lui crede sempre in noi.
Diversità, handicap e “pietà pelosa”. Risposta al commento di Laura
Diversità, handicap e “pietà pelosa”. Risposta al commento di Laura1
Che dovrebbero fare un uomo e una donna che sanno ballare, che amano ballare e sanno essere coppia nell’arte della danza, così come sono e per quello che sono? Dovrebbero chiudersi in casa rinnegando la loro arte, perché uno è senza una gamba e l’altra è senza un braccio? Dovrebbero impedire al mondo di essere sempre più bello e ai cuori delle creature di condividere la loro danza e la loro voglia di essere la comunicazione dell’amore? Perché? Per chi?
Allora ogni diversità potrebbe o dovrebbe percepirsi come handicap vergognoso, potrebbe o dovrebbe nascondere sé stessa, rintanarsi nel buio, vergognarsi di dire sé stessa e la propria gioia di danzare l’esserci e di respirare la vita. Uomini e donne dovrebbero nascondersi, in nome di chissà quale difetto, di chissà quale handicap, magari perché per qualcuno non sono belli da vedersi o non sono belli abbastanza. E chi è più bel ragazzo e più bella ragazza di due giovani che vogliano danzare la vita nella vita, non importa quante braccia o quante gambe abbiano?
Sai, Laura, che il confine tra limite e handicap è solo il nostro sguardo a segnarlo? Sai che nessuno nasce handicappato? Sai che “handicap” è una definizione sociale o culturale? Sai che handicappati si diventa soltanto se e quando si incontra uno sguardo come il tuo? Soltanto se e quando la maggior parte degli sguardi diventa come il tuo, incapace di vedere – prima di ogni sua diversità – la persona, quella persona? Soltanto se e quando un essere umano come te, non accettandosi, non accetta; non accogliendosi, non accoglie; non amandosi, non ama; temendosi, aggredisce; rifiutandosi, discrimina?
Questo blog chiede umilmente scusa a Laura e a tutti i fragili lettori dallo sguardo incapace di aprirsi. Chiede scusa, perché ha osato pubblicare l’intervista al diverso Pablo Pineda (Intervista a Pablo Pineda (in italiano)), che per indubbia provocatoria esibizione ha osato – lui, vergognosamente down! – diventare professore (Intervento di Miguel Lopez Meleto, maestro del prof. Pablo Pineda). Chiede scusa, perché, invece di denunciare tanta vergogna, si è incantato ad ammirare un prodigioso artista di strada che a Milano sulla via da san Babila al Duomo senza gambe palleggiava con maestria incredibile delle sue due stampelle una magica palla (c’è un artista strano). Chiede scusa, perché ama spudoratamente ogni diversità, perfino quelle dei caffè (Un buon caffè al Bar della Diversità), e ancora di più tutte quelle diversità umane che sanno giocarsi nel mondo, per farlo più bello, per aggiungere vita alla vita, gioia alla gioia, umanità alla umanità. Chiede scusa, perché, così facendo, ha messo temerariamente in crisi chi, non sapendo gustare il gioco, il mondo, la bellezza, la vita, non può sapere che si può essere sempre più gioco, sempre più mondo, sempre più bellezza, sempre più vita. Chiede scusa, perché ha indegnamente messo in crisi la normalità di chi non può essere altro che normale, di chi ha bisogno di essere normale, di chi teme di non esserlo davvero.
C’è spesso nell’animo umano il “bisogno” della compassione, della commiserazione, della falsa pietà o, all’estremo opposto, del rifiuto – nell’altro – di ogni debolezza, di ogni limite, di ogni diversità. È un “bisogno” importante, irrinunciabile, che serve a molte persone per illudersi di identificarsi e di sopravvivere: compatendo, commiserando, possono sentirsi buoni e bravi, degni magari del Paradiso; rifiutando possono sentirsi finalmente sani, belli, “normali”, omologati. Spesso è un bisogno talmente profondo e inconscio da essere rimosso o addirittura negato: è la dinamica della identificazione proiettiva di cui ho detto in un mio recente post (Perché si aggrediscono, picchiano, uccidono l’omosessuale, l’extracomunitario, il barbone, il diverso), spiegando che è propria di chi si difende proiettando sull’altro ciò che, senza poterlo ammettere, trova inaccettabile e vergognoso in sé stesso, degno solo di squallida pietà o di totale rifiuto. È un “bisogno” ormai talmente diffuso che, facendoci leva, si possono vincere persino le elezioni,
Se in gioco c’è questa dinamica, lo spettatore ha bisogno di definire la mera presenza del diverso una “esibizione” (vedi il mio post Esibizione, esibizionisti e spettatori della esibizione), leggendola e interpretandola come “quasi offensiva”, come “spettacolarizzazione indebita”, come “provocazione” aggressiva. Allora l’altro, la diversità vanno respinti, nascosti o messi nel burqa discriminante e ghettizzante della compassione e della falsa pietà o in quello più esplicito e, a modo suo, più coerente, del rifiuto intollerante, magari fino alla catarsi della “soluzione finale”. Chi voleva la “soluzione finale” di ogni diversità, è finito rintanato in un bunker, assediato dal mondo intero, sepolto sotto terra prima ancora di morire, avendo come proprio destino il delirio psicotico e il suicidio impotente.
1Rispondo al commento del 24/09/2009 di Laura al mio post “Un ballerino molto in gamba e una ballerina molto alla mano: il fascino della diversità”: “Trovo il video di ballerino con stampella quasi offensivo, nel senso della banalizzazione , catalogazione, spettacolarizzazione dell’handicap, uno sfruttamento come i lavavetri storpi ai semafori , finalizzati alla carità pelosa e ad una superficiale reazione estemporanea che non inciderà sulla percezione della diversità.
Meravigliosi, artistici e quindi profondi sono invece i video di Matteo Basilè ” Per grazia ricevuta” e “ribelle imminente”( http://www.matteobasile.com , cliccare “MyProjects” e da lì “SpecialProjects”)oltre alle sue foto di Vecchie Papesse Incinte ( opere 2007 : Giovanna anno853- Noah is not here- Apparition 1)